Tra i fenomeni delle bande giovanili quello dei paninari ha caratterizzato gli anni ’80: i paninari erano principalmente figli di papà senza grandi idee che cercavano di identificarsi grazie ad uno specifico codice di abbigliamento.
Piumino Moncler e giubbotto di pelle Schott sempre indossati anche d’estate, jeans Americanino saldamente tenuti in vita (alta) da ingombranti cinturoni EL Charro e scarpe Timberland anfibie accoppiate a pesanti calze in lana Burlington con disegno scozzese rappresentavano la loro divisa.
Giravano principalmente su due ruote: l’unico scooter era la vespa ma preferivano Zundapp, Cagiva o Gilera.
Si ispiravano a presunti capi mai visti ed incontrati (e forse mai esistiti) dai nomi altisonanti come Rallo o Lucido e ne narravano le gesta. Alcuni cervavano di sdoganare la propria immagine di figli di papà spacciandosi per cattivi, girando armati di coltello o un tirapugni (spesso auto costruito fasciando lateralmente un moschettone con nastro adesivo che veniva appeso ad un passante dei jeans) e vittimizzando i più deboli.
Le risse in discoteca erano all’ordine del giorno: bastava infatti uno sguardo sbagliato per scatenare l’ira del paninaro.
Il loro sound logo era il brano Wild Boys dei Duran Duran (anche se non avevano nulla di selvaggio) ma ascoltavano anche gli Spandau Ballet.
Il fenomeno raggiungeva una popolarità tale che anche i media se ne accorsero. Nascevano i primi imitatori come Enzo Braschi nel varietà “Drive in” che ne imitava gli atteggiamenti ed il linguaggio. Grazie alla popolarità della TV il fenomeno si allargava a dismisura: l’industria entrava a gamba tesa in questo mercato proponendo imitazioni più economiche dei costosi capi di abbigliamento indossati dai paninari.
Per questo motivo i paninari si sentivano violentati: da una parte derisi dai comici in TV che ne facevano una caricatura, dall’altra imitati sempre più da aspiranti paninari “voglio ma non posso”.
Si stavano anche stufando di ritrovarsi davanti al Burghy di San Babila: Mac Donald bussava alle porte e avrebbe ben presto soppiantato l’idea originale di un hamburger americano a Milano con la banalità dell’industrializzazione globale del fast food.
Negli anni 90 il paninaro stava anche crescendo: il lavoro e l’università mal si conciliavano con quell’abbigliamento stravagante ed è così che il fenomeno spariva in breve tempo come era nato.
Ma dove sono finiti tutti questi paninari?
Svincolati dal cliché del paninaro sono cresciuti e, pur rimanendo senza ideali, si identificavano in un altro modello: gli Yuppies. Si trasformavano così in giovani rampanti che affrontavano il mondo del lavoro svogliatamente, dedicati principalmente alla vana ricerca della felicità. Frequentavano assiduamente grandi compagnie di amici (o quasi), nessun legame sentimentale significativo e lunghe nottate passate in discoteca o imbucati in feste in casa di amici e conoscenti.
Anche questo fenomeno era presto destinato a tramontare. Con la fine del millennio sempre più amici sparivano dal giro: il matrimonio ed i figli non lasciavano più spazio a stravaganze tribali.
Nasceva il mondo di internet, e la new economy era la nuova frontiera da varcare. Lo Yuppies ormai, coniugato senza convinzione e abbandonato dalla tribù, non aveva altro sfogo che buttarsi a capofitto sul lavoro. Doveva riscattarsi dal paradigma di figlio di papà dimostrando che anche lui era in grado di produrre ricchezza. Ed è così che la mansione sul lavoro assumeva una denominazione anglofona accompagnata da importanti suffissi come “chief”, “director”, “officier”, “manager”, “leader” ecc…
La nascita dei social network gli dava poi la scusa definitiva per tagliare tutti i contatti sociali: non c’è bisogno di vedere gli amici: ci si trova e ci si aggiorna su Facebook. Il paninaro diventava quindi il Milanese Imbruttito. Sempre di fretta, dedicato esclusivamente al lavoro, strizza l’occhio agli Stati Uniti e non ha tempo per famiglia o amici ed è proprietario di un grosso SUV.